Pomeriggio di pallido sole, ma l’aria è già di primavera.
Lungo la strada verso la Clarea gli alberi si rivestono di gemme, sui pendii, tra le foglie secche, fanno capolino primule e viole.
In questa giornata di mobilitazione nazionale contro la guerra abbiamo scelto di manifestare davanti al cantiere TAV, il luogo dove meglio si incarna la nostra resistenza quotidiana.
Quella che cammina verso il cantiere è una piccola folla : anziani, qualche giovane, tante donne, bandiere NO TAV, bandiere rosse, qualche bandiera arcobaleno e, in apertura, uno striscione, di fattura artigianale,come si facevano un tempo, cui è affidato il messaggio “ Contro la guerra, le basi militari, le truppe d’occupazione”.
Il terreno risuona ancora rigido sotto i nostri passi, ma il vento leggero di marzo corre sul sentiero, si insinua tra le vigne già potate, gioca con le bandiere.
La guerra sembrerebbe lontana, molto lontana, se non fosse quella distesa pelata là in fondo, quella lebbra grigia che si allarga tra i boschi portando devastazione e schiavitù.
Là sia
mo diretti, ma non ci arriviamo: ad una curva troviamo la strada interrotta da jersey e uomini in assetto antisommossa; tra i boschi sopra di noi si intravede una fila di armati.
Va così in pezzi l’incanto bucolico dei luoghi e del tempo.
Il potere che, in nome di grandi sporchi interessi, ci opprime da decenni con una guerra “a bassa intensità” è lo stesso che da 25 anni scatena guerre ad alta intensità contro altri “popoli di troppo”; Iraq,
Jugoslavia, Somalia, Afghanistan, ed ora Siria, Libia e altri ancora.
Sentiamo materializzarsi intorno a noi il fiume dei disperati che, in fuga dalla guerra e dalla fame, vanno a morire contro le barriere invalicabili dell’ Occidente imperialistico e neocoloniale.
Da 25 anni anche i governi italiani, in spregio dell’articolo 11 della Costituzione, precipitano il Paese in guerre scatenate dal capitale ai danni degli sfruttati e dei poveri del mondo; guerre all’esterno, a fianco degli USA e della NATO, o portate avanti “in guanti bianchi”, con la vendita di armi ai potentati economici di ogni continente; guerre all’interno attraverso leggi securitarie, taglio di diritti e repressione delle lotte. Il nostro NO TAV è un NO a tutto questo.
Ormai si fa sera; si preannuncia una notte fredda, senza stelle.
Sul sentiero, a ridosso dello sbarramento, accendiamo un falò.
Che luce e calore giungano lontano, fuoco di resistenza e di ribellione, messaggio fraterno agli umiliati e oppressi di tutto il mondo.
Per Davide, per Laura nata in carcere
Il carcere di Teramo è un moderno fortino, immane blocco di ferro e cemento arroccato sulla cima di un colle, totalmente estraneo al paesaggio circostante, fatto di dolci declivi coperti di uliveti, di montagne che si ergono in lontananza, bianche di neve.
Vi giungo in una mattina d’autunno che sembra primavera. Sole chiaro e aria profumata, un invito al libero andare. Penso a come si debbano sentire le donne e gli uomini oltre le sbarre.
Sono qui insieme alla delegazione in visita al carcere, a conclusione dell’iniziativa organizzata ieri dall’Osservatorio contro la repressione con un partecipatissimo convegno dal titolo “ Chi devasta e saccheggia è il capitale”, sugli scempi sociali e ambientali, la repressione nei confronti di chi vi si oppone, l’urgenza di un’amnistia sociale che liberi dalle galere quanti scontano il reato di povertà e con loro i compagni che – alcuni da mezzo secolo – pagano duramente l’antagonismo all’ingiustizia e alla schiavitù.
Tra poco vedrò Davide, Davide Rosci, uno dei giovani arrestati in seguito agli scontri avvenuti a Roma il 15 ottobre 2011, che sta scontando una condanna a sei anni per “devastazione e saccheggio”, un reato esistente solo per la legge italiana, triste eredità del codice fascista Rocco.
La visita comincia con le solite formalità, ( il controllo documenti il deposito borse e cellulari, la compilazione dei fogli di generalità). Al di là del pesante cancello c’è silenzio. Alcuni detenuti trasportano i bidoni della spazzatura, una quotidianità che stride con l’eccezionalità del luogo.
In una saletta interna il medico del carcere sta tenendo un corso per il personale di custodia e gli operatori sociali su temi trattati in due volumetti che ci vengono forniti: “ Conoscersi per amarsi. Tutela della salute della donna” e “Salute Mentale dei Soggetti Reclusi”.
Gli agenti che ci accompagnano non nascondono le difficoltà e le carenze: il sovraffollamento endemico, la presenza di carcerati con problemi psichiatrici che il carcere aggrava (nei mesi scorsi si sono verificati tentativi di suicidio), portatori di handicap in una struttura piena di barriere architettoniche, mancanza di spazi per attività lavorative e artigianali che permettano alla persona, insieme all’acquisizione di una professionalità, l’evasione almeno mentale dall’alienazione carceraria. Le attività che i detenuti svolgono a rotazione sono legate esclusivamente alla gestione interna quotidiana: pulizie, cucina, piccola manutenzione. C’è anche un orto per consumo interno, tenuto da reclusi che compiono in carcere gli studi di agraria (si preparano da privatisti, come anche altri, studenti di istituti professionali e universitari di Giurisprudenza). Il pezzo di terra è minuscolo, davvero un’anomalia rispetto al cemento circostante, ma dai teli delle brevi serre debordano fragole meravigliose, un rosso grido di vita in mezzo a quel morto grigiore.
Nei pressi del reparto femminile è stato allestito uno spazio per i colloqui con le famiglie: colori pastello alle pareti, affreschi di animali e pupazzetti eseguiti da un detenuto, mobili chiari, arredamento domestico; all’esterno un piccolo giardino con panchine e giochi per bambini. M è uno spazio disabitato: le donne e i bambini sono altrove, oltre i cancelli che si aprono e si chiudono al nostro passaggio.
Nel reparto femminile grandi pulizie del sabato, pavimenti tirati a specchio, le donne sulle porte delle celle in attesa che si asciughi il lungo corridoio centrale. Vado da loro; mi abbracciano, vogliono sapere il mio nome. Hanno età diverse, un’anziana, tante giovani, alcune giovanissime; qualcuna indossa il grembiule come nella cucina di casa.
Sento crescere il disagio per una visita che, oltre al saluto e all’abbraccio, non lascia loro niente, non porta buone novelle, non apre cancelli né abbatte inferriate, non renderà più leggero il carico dei mesi e degli anni scanditi da giorni vani e notti interminabili, non parla del dopo.
Il cuore del reparto femminile è il nido, che ospita con le madri, i bambini fino a tre anni d’età. Sulla porta della cella, in braccio alla giovanissima mamma , trovo Laura, nata lo scorso 14 novembre; dorme serena e ignara, fagottino rosa dai pugnetti serrati, lei così piccola e già privata dell’aria libera e del sole, rinchiusa in stanze tristi dove il cielo si vede solo dalle inferriate. Quale futuro questa società di sepolcri imbiancati riserva a lei, alla sua pallida madre bambina? E come può essere tutto questo un riosarcimento alla “società offesa”?
Saliamo col montacarichi al quinto piano, nel reparto dei comuni. (i piani sottostanti sono riservati ai detenuti per mafia, ai collaboranti, ai condannati per violenze sessuali).
Anche qui le celle sono aperte, il corridoio affollato.
Ci accompagnano alla cella di Davide. Un giovane (il suo coinquilino) sta spazzando vigorosamente con acqua e sapone il pavimento.
Davide arriva dal fondo del corridoio, sorridente sotto la gran barba, ; abbracci e commozione. Chiede dei compagni , del Movimento NO TAV, dell’assemblea tenutasi il giorno precedente. E’ forte, sereno e pieno d’amore, nonostante tutto, come chi affronta la sua strada senza arroganza ma con determinazione, capace , anche nella disumanità del luogo, di provvedere agli altri, ai più deboli e dimenticati. I compagni di detenzione gli si fanno vicini. Al direttore che intanto è sopraggiunto chiede anche per gli altri detenuti la possibilità di attrezzare una palestra, l’accesso ai canali televisivi; lo fa senza deferenze, con tranquilla autorevolezza.
La minuscola cella che divide con un compagno , parla di lui e dei suoi affetti: le foto dei familiari, i disegni dei nipotini, una piccola scansia di libri, il ritratto del Che, i colori del Teramo, una miriade di adesivi che rivendicano la sua militanza antifascista, le lotte sociali e ambientali tra cui spiccano i simboli NO TAV.
Dalla finestrina ferrata si scorgono i terreni che scendono tra casali e coltivi fino al mare, ma Davide ama i monti e, prima del commiato, mi accompagna in fondo al corridoio, alla vetrata da cui si può vedere il GranSasso innevato ed accanto ad esso quello che la leggenda chiama il gigante dormiente, un profilo supino di idolo, ieratico nel suo candido splendore. Mi viene da pensare che della stessa fibra forte e dolce siano plasmati Davide e questi generosi compagni che mi hanno accolta, ospitata, accompagnata.
Dal treno del ritorno, in corsa lungo un mare che ieri era di piombo ed ora accoglie l’ultima luce del tramonto ripenso a loro e scrivo queste note.
Giustizia e rondini
Avvertita di una mia presunta dichiarazione comparsa su La Stampa di ieri, , in un articolo dal titolo “Noi siamo tenaci. Ma De Luca attira solo gli irriducibili”, sono andata a leggermi l’articolo.
Si riferisce all’assemblea tenutasi a Bussoleno dopo la sentenza e, a proposito del mio intervento, si riportano parole di elogio alla “magistratura” che non ho mai detto, e non le ho mai dette perché non le penso.
Una sentenza giusta può essere caso mai ascritta a merito della persona che l’ha pronunciata, ma non basta certo ad assolvere una magistratura che non solo rispetto ai processi contro i NO TAV, ma in infiniti altri casi (e si potrebbe dire da sempre), salvo pochissime eccezioni, dimostra esattamente il contrario, con imputazioni, procedure e sentenze prone ai poteri forti e punitive per le vittime.
Considero la giusta sentenza nei confronti di Erri De Luca non la regola, ma l’eccezione, rispetto a cui si potrebbe dire che “una rondine non fa primavera”.
L’inverno della repressione lo respiriamo ogni giorno nella nostra Valle militarizzata, nelle prigioni diventate più che mai strumento di controllo sociale, nei tribunali dove tanti nostri compagni, soprattutto giovani, si vedono infliggere anni di carcere per una resistenza condivisa e praticata collettivamente e, quella sì, giusta perché rivolta alla difesa di diritti inalienabili.
Vivo sulla mia pelle l’offesa quotidiana da parte di una grande mala opera che distrugge salute, risorse naturali, sociali ed economiche, sovranità popolare, bellezza, futuro. Vedo leso ogni giorno, e ben oltre i luoghi della mia esistenza, il diritto all’abitare, ad un lavoro che non schiavizzi e non uccida, alla scuola e alla sanità pubblica, alla libertà di movimento delle persone e delle idee.
Vedo i luoghi del potere popolare totalmente in balia di una lobby violenta e spudorata, che fa legge del proprio arbitrio e del proprio profitto . Ricordo le stragi di stato impunite , le infinite morti per lavoro, le vittime di polizia che mai hanno trovato nei tribunali non solo giustizia, ma neppure attenzione. Penso all’ingiustizia che si fa guerra all’uomo e alla natura.
No, non credo all’indipendenza di questa magistratura e sono convinta che l’eccezione della sentenza per Erri confermi la regola di una Legge che non è uguale per tutti.
Per questo respingo in quanto
non mia l’affermazione che mi viene attribuita: “Oggi la magistratura ha dimostrato di essere davvero indipendente e di saper rispettare prima di tutto la Costituzione”.
Rabbia e tristezza…..
Ma poi mi guardo intorno, respiro i dolci colori autunnali di questa mia Valle che si è rimessa in cammino e non si rimetterà in ginocchio. Sento profondamente la forza di un popolo che ha saputo distinguere tra legalità e giustizia, una collettività che la Costituzione, quella vera, voluta e difesa dai suoi figli partigiani, la conosce e la pratica, da sempre.
La lotta continua , senza facili illusioni ma senza disperazione, continua il sabotaggio collettivo contro questo sistema violento e troppo ingiusto per durare.
Se una rondine non fa primavera, uno stormo di rondini può abbattere un bombardiere.
