Ordinaria domenica di epidemia

Qui intorno non circola nessuno. La giornata è nuvolosa, ma più tersa delle giornate ventose del passato.
Il mio glicine si è allungato sul cancello; sembra più vivo e più felice che mai. L’erba cresce fiduciosa e curiosa. I miei gatti attraversano la strada senza il pericolo di essere investiti.
Mentre l’essere umano è costretto in casa, la natura rifiorisce: evidentemente non sente la mancanza di chi l’ha sfruttata, segregata, offesa.
L’ ordine altro che ci viene imposto da un potere che sta preparando un futuro ancora peggiore dell’invivibile presente, prevede – oltre al pugno di ferro contro i carcerati , lasciati in catene davanti al coronavirus – l’eliminazione, sia pure grondante di cordoglio, degli anziani, la cui morte significa meno pensioni da pagare, con evidente sgravio per le finanze di una collettività senza memoria..
Quanto agli gli encomi ipocriti per il personale sanitario “ in trincea”, non devono far dimenticare i quarant’anni di pesantissimi tagli alla sanità pubblica, sull’onda del “ privato è bello”, mentre le casse dello stato venivano sistematicamente svuotate a favore delle grandi male inutili opere, le stesse che rimangono prioritarie per i bilanci del dopo-epidemia, perché “portano lavoro”.
Fanno un brutto effetto lo sventolìo delle bandiere tricolori di un rinato nazionalismo da adunate oceaniche sia pure in chiave buonista, l’esibizione dei cliché televisivi su una solidarietà emergenziale non destinata a durare,
E che dire dell’animalismo equivoco di quanti, all’improvviso, scoprono che adottare un cane può essere un utile salvacondotto per uscire a passeggio? (pare che i canili siano assediati da richieste di animali, alle quali hanno deciso di non rispondere, per evitare il probabile “usa e getta” in un futuro tornato “normale”).
In un paese costretto ai domiciliari dalla legge dell’epidemia, mi sembrano quasi la normalità i miei domiciliari da tribunale…: “mal comune, mezzo gaudio”? No, preferisco il grido delle barricate NO TAV: si parte e si torna insieme!

A che cosa serve il carcere?


Da quest’ esperienza una cosa l’ho imparata: che il fine esplicito ed istituzionale del carcere è quello di ridurre all’obbedienza, cieca, contro qualsiasi coscienza critica, ogni autonomia: a questo sono finalizzati lo stravolgimento dei tempi e degli spazi, l’arbitrarietà degli ordini, la sistematica repressione di ogni obiezione, la violenza psicologica e l’umiliazione delle perquisizioni corporali ogni volta che ti muovi, le battiture dei blindi nelle ore più improbabili, le celle buttate all’aria per cercare il nulla assoluto, l’obbligo di domandina scritta al direttore per le cose più ovvie (comprare i gettoni per la lavatrice, ricaricare la scheda telefonica, mandare a casa oggetti o libri….), la chiusura delle celle più volte nella giornata senza un preciso motivo, la prepotenza delle guardiane che negano o concedono a capocchia, il sentir chiamare “Africa”, “india”, “Cina” le tue compagne dalle secondine che ne cancellano volutamente nome e cognome….
Uno degli ultimi interfaccia è stato con quella che ci teneva a sottolineare il suo grado… ” si sente offesa? Da cosa? Parla con me come se fossimo fuori dal carcere…Qui le regole sono diverse….” Le regole sono le loro , rispetto alle quali loro sono tutto e tu non sei niente.
Solo se diventi un utile strumento, poi essere , minimamente, tenuto presente. Nel momento in cui sei pronta a chiamare le guardiane per risolvere un litigio con la tua compagna di cella o non hai problemi a dare informazioni su come si comportano e di che cosa parlano le “attenzionate speciali”, allora sei sulla buona strada,in gara per rientrare nella “società civile”… L’unico carcere accettabile è quello abolito.

Fogli di diario – 31 dicembre 2019

Ultimo giorno dell’anno, primo di carcere.

Mattinata passata tra visite mediche, psicologi ed assistenti sociali. Per come mi guardano, mi sento un marziano. Qualcuno mi chiede perché e fino a quando: sono spiazzati rispetto al cliché del detenuto.
Nel primo pomeriggio decido di fare l’ora d’aria. Ma sono senza cappotto che all’arrivo mi hanno sequestrato (“troppo lungo” è la motivazione). Chiedo un indumento utilizzabile e, dopo qualche insistenza, mi arriva una giacchetta imbottita, “ dal casellario” mi dicono. Poco è meglio di niente, soprattutto perché voglio scendere a provare di persona i luoghi e i racconti di chi in carcere c’è stato prima di me e più a lungo.
L’ora d’aria per le nuove giunte si svolge in un cortile minuscolo, chiuso tra muri e sorvegliato da telecamere. Non si può far altro che camminare in tondo, da sole o con qualcuna che ti si affianca per parlare con te.
La cosa migliore è il poter incontrare le altre donne. Mi guardano con curiosità: ieri sera al TG regionale hanno trasmesso la notizia e qualche immagine del mio arresto. Alcune si avvicinano e mi chiedono il perché della mia decisione: a chi sogna il fine-pena risulta difficile capire per quale ragione qualcuno può scegliere di “finire dentro”. Mi sorprende come bastino poche parole per averle dalla mia parte, molto prima e molto meglio di tanti perplessi, fuori. Ho l’impressione che qui funzioni, prima di tutto, una solidarietà naturale, una simpatia istintiva, forse perché netta è la barriera tra chi è carceriere e chi è carcerato.
Mi chiamano perché ho una visita: i miei avvocati. Che emozione vedere Valentina ed Emanuele!
Mi portano notizie di casa e mi raccontano delle mobilitazioni partite immediatamente, in tutto il paese e più lontano, dai luoghi e dalle realtà più impensabili….……………..

Qui dentro salta la nozione non solo dello spazio, ma anche del tempo. La cena è alle cinque del pomeriggio, poi comincia la notte del carcere. Quella dei nuovi giunti è una “sezione chiusa”: ciò vuol dire che te ne stai chiuso in cella diciotto ore su ventiquattro….
Vedo scendere il buio stando alla finestrella del mio cubicolo, blindata da reti e sbarre. Dai serramenti di ferro arrivano gelidi spifferi, nonostante la rudimentale imbottitura di giornali.
Sotto di me, oltre il rettangolo del cortile, c’è la panetteria interna, dove lavorano detenuti. Ma qui non mi giunge odore di pane… Com’è lontano il mio paese, via Fontan invasa dalla fragranza del pane appena sfornato, quando a ora tarda, chiusa la Credenza o terminata qualche riunione, ce ne tornavamo a casa, accarezzati dall’aroma antico……
Nello spiazzo sottostante avanzano guardinghi due grossi gatti, esemplari di una colonia felina che la mia compagna mi dice numerosa. Penso ai miei piccoli, quelli di casa e quelli acquisiti che, a quest’ora, aspettando il cibo, si chiederanno che ne è di me…. No, non devo lasciarmi vincere dalle insidie della malinconia. In fondo anche l’anno che sta per iniziare passerà..……………..

Deve essere mezzanotte: qui non esistono orologi perché, evidentemente, anche la percezione del tempo che scandiva la vita di prima è un riferimento negato a chi sta in carcere: così lo spaesamento, il taglio col mondo fuori è totale.
Ma a dirci che è mezzanotte è l’allegro scoppiettìo dei fuochi d’artificio, luminosi, multicolori, tutto intorno al carcere: un messaggio di solidarietà per noi che il capodanno non lo festeggeremo.
Ecco un’esplosione di stelle rosse…. Che il nuovo anno sia di liberazione… dalle catene…., dalle ingiustizie…., dalle grandi male opere…., dalla rinuncia alle lotte collettive che mette deboli contro deboli…., dalla precarietà che avvelena questo nostro tempo.
Nelle celle c’è movimento, tutte le detenute sono alle finestre; non bastano reti e sbarre a separarci dall’aria aperta, dal vento di valle che entra col freddo della notte e ci porta, di lontano, voci, canti di saluto.
Buon anno, con rabbia e affetto.