4 ottobre 2025, a Roma per la Palestina

Un milione. Un milione di corpi in movimento, di bandiere, striscioni, messaggi a pennarello su pezzi di cartone. Un milione di voci che scandiscono slogan per la Palestina, nacchere e tamburi, canzoni (ho risentito con gioia e meraviglia canti che vengono da lontano, dagli anni ribelli della mia gioventù e dalle lotte operaie e contadine dei miei padri proletari).

Milioni e milioni di passi lungo i viali della Roma imperiale, a cui sono giunti i ribelli delle periferie sociali di tutto il Paese. C’è anche la nostra Valle, anch’essa ridotta a periferia dal sistema violento e folle che sulla guerra agli esseri umani e alla natura fonda il proprio dominio e la propria esistenza.

Si cammina al fianco della Palestina e della sua resistenza, contro il massacro che, a partire dalle morti bambine, sta annientando quel popolo e la sua terra. Si cammina contro i governi del mondo – governo italiano in primis – che o stanno dichiaratamente dalla parte di Israele o nulla di concreto stanno facendo per fermare il genocidio, perché gli interessi che li legano a Israele e al sistema USA – NATO sono più forti di ogni sia pur minimo senso di umanità.

A ribellarsi sono i popoli del mondo: una solidarietà e una lotta che si risvegliano perché si è capito che la Palestina è ovunque e che, lottando per quel popolo che il capitalismo da sempre vuole annientare, si lotta per se stessi.

Nel dolcissimo ottobre romano le tinte accese dell’autunno si mescolano al fiume di suoni e di colori che avanzano verso il centro. In tanto splendore stona il muro cupo di divise e blindati che sbarrano le vie laterali, il ronzio degli elicotteri, i droni che contendono il cielo al volo dei gabbiani.

Ed eccoci al Colosseo. Il tramonto inonda di rosso le antiche mura, le gradinate su cui i proletari dell’epoca sedevano, ammansiti con la ricetta del “panem et circenses”….Quanto sangue avrà conosciuto l’arena…sangue di gladiatori , schiavi costretti ad uccidere altri schiavi….sangue di leoni, tigri, elefanti, animali strappati alla terra natia per venire a morire al centro dell’impero.

Quando arriviamo a piazza San Giovanni, è ormai buio. Gli interventi conclusivi sono finiti da un pezzo. Mentre sta sfilando la coda del corteo, arriva la notizia di cariche poliziesche e di fermati. Nella notte sirene di ambulanze e di cellulari.In piazza santa Maria Maggiore la polizia in assetto antisommossa fronteggia un gruppo di manifestanti accorsi a sostegno dei compagni fermati. Sono giovani e giovanissimi, ragazzini, gli stessi che in ogni città continuano la mobilitazione in nome dei diritti negati. Ragazzini come quelli di Gaza che anche in questo momento stanno morendo di bombe e di fame.

Mentre ci spostiamo verso Termini in cerca di una metropolitana , incappiamo nell’ennesima carica appoggiata da idranti e lacrimogeni. Gli agenti braccano i manifestanti lungo le vie della movida: fa un certo effetto sentire il morso acre dei lacrimogeni arrivato fino ai tavoli delle trattorie, tra le code alla vaccinara, i tonnarelli cacio e pepe e il “vino de li castelli”, a disturbare il rito indifferente del sabato sera…

Ma ecco piazza della Repubblica, la metropolitana affollata di bandiere, kefie, saluti, richiami…Si corre veloci in direzione Anagnina, dove ritroveremo i compagni e il pullman per il rientro a casa. Ci aspetta una lunga notte di viaggio verso la Valle, là dove la lotta continua.

Genova 2025. Carlo é vivo e lotta insieme a noi.

Genova ci ha accolti con la mole di una nave da crociera così grande da sottrarre ogni vista di mare: decine di piani, migliaia di finestrelle che, a vederle, danno l’angoscia e non fanno certo pensare all’avventura del viaggio, ma allo stress del vivere compressi, intrappolati nell’anonimato della folla.

Ma piazza Alimonda è dolce e fraterna in questo pomeriggio che ogni anno si ripete sul filo del ricordo. Non abbiamo dimenticato Carlo e lo rivediamo mentre, in queste stesse ore di ventiquattro anni fa, insieme a tanti altri giovani come lui, percorre queste strade portandosi addosso null’altro che i suoi vent’anni, la canottiera bianca, il rotolo di scotch infilato al braccio e lo sguardo azzurro, sincero di ragazzo.

A piazza Alimonda Carlo fu ammazzato, colpito a morte dalle forze dell’ordine costituito, il braccio armato del G8 che in quei giorni, per le vie di Genova, celebrò i riti della globalizzazione capitalistica in un bagno di sangue di cui la morte di Carlo fu il tragico culmine.

Oggi qui a ricordare ci ritroviamo in tanti, i vecchi compagni e i giovani venuti dopo sulla via delle lotte. E ancora sventolano le bandiere e gli striscioni di allora a denunciare il presente del sistema di sempre, guerrafondaio e assassino. “La loro pace e la loro guerra sono come il vento e la tempesta: la loro guerra uccide quel che alla loro pace è sopravvissuto”: la lirica di Brecht mi risuona in testa mentre ascolto gli interventi dal palco che denunciano come la pace armata di allora sia diventata la guerra aperta di oggi: la loro pace, devastando diritti, senso di solidarietà sociale e ambientale, cultura dell’accoglienza, internazionalismo degli sfruttati, ha aperto la strada agli orrori della loro guerra : la guerra imperiale e coloniale che dura da sempre e che ora si fa pulizia etnica contro il popolo Palestinese, genocidio a suon di bombe e di morte per fame, praticato dallo stato di Israele con il sostegno del capitalismo mondiale e dei governi ad esso asserviti.

In piazza Alimonda risuonano canzoni e parole e non c’è ambiguità né rassegnazione. Rabbia e festa stanno insieme come allora, in quella Genova 2001, quando le barriere delle “zone rosse”, innalzate a protezione dei potenti, nulla potevano contro il dilagare della protesta. Ed al divieto di stendere panni da balcone a balcone, emesso dalla questura in nome di un presunto decoro urbano, la città rispondeva con l’l’ironico, allegro sventolìo di maglie, mutande, camiciole, calzini stesi in lunghe file ad asciugare lungo tutte le vie del centro storico.

Oggi sono tanti i sorrisi, gli abbracci, grande la gioia del ritrovarsi, ma il cuore della giornata è lei, la mamma di Carlo, la dolce Haidi che siede modestamente dietro il palco e, nel tempo, ha saputo fare del dolore un talismano contro la rassegnazione, una ragione forte di testimonianza e di resistenza collettiva.

Quando ripartiamo verso la Valle è ormai sera, una sera luminosa che penetra nei caruggi accarezzando muri scrostati e affreschi signorili. In quest’ora Genova, deposta la concretezza mercantile, si riveste di malinconia.

Le navi da crociera hanno lasciato il porto e, dalla soprelevata che, come una spina dorsale, attraversa tutta la città, riusciamo a vedere in lontananza uno spicchio di mare.

Si parte e si torna insieme.

25 – 26 – 27 luglio 2025 Festival Alta Felicità

In questi giorni a percorrere le vie della Valle verso Venaus, per condividere l’Alta Felicità di resistere, c’è il mondo.

Si arriva con tutti i mezzi: auto, qualche camper, ma soprattutto treno. Dalla stazione di Susa sono disponibili navette, troppo poche per la folla degli arrivi. E allora si va a piedi, zaino e tenda in spalla, una lunga fila di camminanti sotto il sole a picco, la fatica compensata dalla prospettiva di vivere un’esperienza in cui riconoscersi, sentire come realizzabile il proprio bisogno di stare bene, insieme.

Quest’ anno le presenze sono ancor più numerose rispetto alle edizioni precedenti. Davanti a chi arriva si allarga un mare multicolore di tende sui prati che, nel 2005, conobbero la resistenza contro l’occupazione militare e, l’8 dicembre, furono riconquistati da una marea di popolo: donne, uomini, giovani, anziani saliti in Val Cenischia a rompere i cordoni della polizia e le recinzioni del cantiere messo in piedi in fretta e furia dopo lo sgombero a mano armata del presidio resistente.

In quei giorni c’era la neve. I prati distese gelate, l’aria uno sfarfallio di fiocchi, le notti punteggiate di fuochi.

Oggi la luce incandescente dei giorni di fine luglio. Sui prati appena falciati una tendopoli felice. Le notti sfocate dalle luci psichedeliche dei concerti.

Ma ora come allora la consapevolezza che è festa anche il conflitto, se si è dalla parte degli oppressi che rifiutano la resa e si organizzano per difendersi.

E, il sabato pomeriggio, sono la festa e la lotta ad animare le tre manifestazioni che si dirigono verso la Clarea, San Didero, Susa, i luoghi dove è in atto la devastazione.

Giovani, ragazze, ragazzi, bambini con i genitori, e insieme a loro, chi in questa lotta ha visto scorrere i suoi anni migliori e ne porta il ricordo come un talismano che lo spinge ad esserci, a lottare ancora.

Si cammina verso Susa in allegro disordine, sulla via che porta all’autoporto, nella piana popolata dalle frazioni Traduerurivi e San Giuliano, condannata a morte dal progetto TAV.

Qui le grandi male opere hanno già lasciato il segno: quarant’anni di autostrada, prima i lavori, poi il passaggio di migliaia d TIR giornalieri nella valle ridotta a corridoio di traffico, dove tutto passa e nulla rimane.

Fino agli anni ‘80 questi erano luoghi di orti, vigneti, piccole cascine, qualche villetta con giardino.

Poi vennero il cemento, l’asfalto dei piazzali, il labirinto degli svincoli autostradali e “Annibale 2000”, la mole plumbea e costosissima che, nella propaganda mendace della lobby proponente l’opera, doveva essere il “fiore all’occhiello” della Valle – albergo di lusso, museo d’arte , vetrina delle produzioni locali, prestigioso centro congressi – ed è rimasta un rudere semideserto, inutile e costosissimo.

Ora qui è prevista l’uscita del tunnel TAV transfrontaliero, mentre quella che fu la “pista guida sicura” per l’istruzione alla guida dei veicoli pesanti diventerà il deposito del materiale di scavo: montagne di detriti contenenti amianto, uranio, polveri velenose accumulate a cielo aperto in una zona costantemente spazzata dai venti.

Camminiamo fra due mondi: quel che e rimasto del passato -la fascia di pascoli protetti dai boschi che scendono lungo le pendici montane, qualche mandria, piccoli vivai – e il nuovo “cantiere d’interesse strategico nazionale”, recintato dai betafence irti di filo spinato, l’affilata concertina di fabbricazione israeliana che diventa una trappola mortale per chi vi finisce impigliato.

Ma chi lotta per amore non conosce barriere invalicabili.

Nella luce del pomeriggio che si fa sera, dopo un lancio di fuochi d’artificio, viene aperta una breccia e si entra nel fortino che sembrava inaccessibile.

A praticare il gioioso sabotaggio ci siamo ancora, ci siamo tutti, ciascuno secondo le sue possibilità.

La fresca brezza che annuncia la fine del giorno ci accompagna sulla via del ritorno. Come sempre, si parte e si torna insieme.